Nell’Anniversario della Liberazione, un episodio di guerra ricostruito con la testimonianza del protagonista Francesco Trento, al tempo giovanissimo pescatore su questo specchio di Mare Ionio. Il racconto, presente nel mio libro del mare e pubblicato l’8.9.2013 sul Quotidiano della Calabria, mostra come la Resistenza abbia coinvolto anche tanti nostri concittadini, nelle storie della loro quotidianità e dei loro giorni di fatica. E continua ancora oggi, nella lotta per i diritti. A.S.
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Ohi tà, stai sentendo?”
“Cosa, Cicciarè…”.
“Ohi tà, mi sembrano apparècchij… ”
“Sì, sono apparècchij. Ma come, l’armistizio l’hanno fatto…”
“E da dove vengono, allora?”
“Forse sono americani… pericolo non ce n’è”.
Incuranti del cupo rombo di aerei che si sentiva in lontananza, Ciccio e suo padre Raffaele, detto Raffaele iru Nìguru, continuarono a pescare con la lenza i pesci sùrici che servivano da esca aru conzu delle cernie.
In quell’alba del 10 settembre 1943, padre e figlio pensavano solo a svolgere il loro lavoro, iniziato con fatica dalla sera prima, quando erano discesi a piedi da Mandatoriccio, il piccolo paese nascosto fra le montagne della Sila, dov’erano sfollati con tutta la famiglia e tanti compaesani. La barca l’avevano a Cariati, aru scaru sottostante la loro casa situata nel cuore del borgo marinaro. Da quel tratto livellato di arenile, avevano varato proseguendo al remo nella direzione opposta, per raggiungere Calamìti, presso Calopezzati, un punto indicato dal torrente omonimo, che offriva la possibilità di abbondanti pescate. Raffaele lo teneva bene a mente, sapendo le correnti e i pesci che si muovevano in quel tratto costiero fino Mirto Crosia.
Era uscito contento, con la barca. Il fatidico 8 settembre era passato, ma ancora gli risuonava in testa la voce del maresciallo Badoglio che proclamava l’armistizio con gli anglo-americani. L’aveva sentita alla radio, a casa del prete, con il cuore in tumulto. Aveva esultato dalla cuntentìzza, con gli altri sfollati. La guerra finalmente era finita.
Aveva quindi deciso di scendere al mare con Ciccio, l’unico dei quattro figli maschi che il Regio Esercito, per la giovane età, non gli aveva preso.
L’uomo pensava ai figli soldati con un peso sul cuore:
“Tornassero sani e salvi i miei ragazzi… ”.
Le ultime notizie le aveva avute mesi prima dal primogenito Vincenzo, arruolato nella divisione di Bari; il giovane milite aveva informato i genitori anche della terribile prigionia subìta dal fratello Cataldo in Grecia e del precario stato di salute di Rocco, imbarcato a La Spezia su una corazzata. In questa situazione, era comprensibile che sua moglie stesse sempre, come si dice, con i morti davanti. Sempre più dolente, ogni giorno che passava.
Sapendo che non c’era più guerra, Raffaele progettava di riportarla nella loro casa di Cariati, ad aspettare il rientro dei tre grandi con gli altri figli: Ciccio, che già era capace di lavorare come un uomo, Nunziata, assennata e servizievole e poi Leonardo, il più piccolo, che te ne faceva andare l’anima quando, piangendo, diceva alla madre: “Ohi mà, vogghj u pani!”.
Per gli sfollati pane non ce n’era. Solo frutta, a Mandatoriccio. Il primo giorno che erano arrivati, con donne e materassi sul carro tirato dai buoi, la padrona della casa dove sarebbero rimasti in quel tempo di guerra, li aveva portati alla sua cota a raccogliersi pere e fichi; il cibo quotidiano, da consumare con i pesci arrostiti, sempre senza pane. In quei paesi di montagna non si trovava nemmeno a scambiarlo con i pesci buoni. E dire che ne avevano, da vendere e da mangiare, perché i marinari continuavano a lavorare, affrontando la lunga discesa a piedi fino alla costa e poi la difficile risalita, con le cassette del pescato sulle spalle.
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Adesso il rombo degli aerei si sentiva più forte. Ciccio e suo padre avevano buttato di nuovo a mare l’attrezzo formato da una lunga corda di canapa con tante cordicelle applicate, terminanti con ami. Aspettando che le cernie abboccassero, preparavano le altre esche nella sporta del conzo grosso, utilizzando i sùrici appena pescati, tagliati in due.
“Saranno gli alleati sbarcati in Sicilia nel mese di luglio”, considerò il pescatore, spiegando al figlio che gli anglo-americani effettuavano voli di ricognizione per controllare che non avvenissero attacchi nemici.
“E se fossero tedeschi?”, chiese preoccupato il ragazzo. Raffaele, quasi fra sé, osservò:
“Sarebbe un guaio. Lo sai che non vogliono far passare gli americani. Con gli aerei bombardano i ponti e li fanno andare per aria. Ma gli americani si ncàrricano di loro, passano lo stesso, per terra e per mare…”
Raffaele si rendeva conto del pericolo. Che ne sapevano loro se erano tedeschi o americani… piuttosto che stare nel dubbio, meglio andarsene.
“Tìrati la lenza che ce ne andiamo a Cariati”, disse, deciso, al suo ragazzo.
Ciccio, dopo tante ore di veglia e di fatica, era sfinito. Sentiva che non ce l’avrebbe fatta a remare ancora per varie miglia, fino al loro scaro. Per poche ore, poi… nel pomeriggio avrebbero dovuto fare lo stesso duro tragitto per completare il lavoro al largo di Calopezzati. Supplicò il genitore:
“Ohi tà, lascia stare… gli apparècchij non si sentono più come prima, se ne stanno andando…”
Il padre si convinse e propose: “Allora jam’a minar’ u conzu della cernia vicino a Mirto”.
Si misero ai remi, avanzando lungo il tratto conosciuto da Raffaele come il più favorevole alla cattura di quel pesce robusto e pregiato, pagato bene dai compratori.
Avvistarono la squadriglia aerea quando era già troppo tardi. Non ce l’avrebbero mai fatta a prendere terra. Ciccio urlò:
“Ohi tà, sono sul ponte di Trionto, vengono da noi!”.
“Bùttati, buttati di basso!” ordinò il padre, rannicchiandosi con lui sotto la prua della barca e tenendolo stretto, strettissimo, sotto di sé, a fare da scudo con il corpo, mentre, intorno, si scatenava l’inferno.
La prima bomba esplose a circa cinquecento metri di distanza dal gozzo di Raffaele iru Nìguru, diventato l’obiettivo dell’incursione. Padre e figlio, terrorizzati, sentirono tremende raffiche di mitragliatrici spegnersi nell’acqua che, al secondo attacco, schizzò, con altissimi getti, nell’aria, vicinissimo a loro. D’istinto abbassarono il capo, tenendolo stretto con le mani, nel tentativo ormai inutile di proteggere gli occhi. Era finita. Un’altra scarica non avrebbe mancato il bersaglio…
D’improvviso, com’era iniziato, il putiferio cessò. Il rombo assordante andò sempre più attenuandosi. Quando si sentì solo il suono lieve della maretta che ondeggiava, i due pescatori uscirono dal nascondiglio. In preda al terrore, l’uomo buttò a mare la sporta del conzo con tutta l’esca e gli ami. Dovevano prendere terra prima possibile, senza impedimenti.
La spiaggia di Mirto li accolse sconvolti e sfiancati. Ci volle uno sforzo sovrumano per tirare la barca all’asciutto. Sopraggiunsero alcuni soldati dell’esercito italiano, che avevano un presidio nei paraggi.
“Siete vivi per miracolo!” gridò, impressionato, l’ufficiale, che aveva assistito impotente a quell’assurdo attacco militare.
“Ci hanno tirato le bombe ma non ci hanno preso…”, rispose Raffaele con un filo di voce. Trovò, tuttavia, la forza necessaria a formulare la domanda che gli premeva nel cervello:
“Ma che aerei sono, signor tenente?”.
“Sono tedeschi – spiegò il soldato – pare abbiano occupato Roma, facendo fuggire il re, dopo l’armistizio. Di certo hanno iniziato già ieri sera ad attaccare dal mare…”.
“E pure qui dovevano venire… questi tedeschi… gente barbara!”, commentò, sconsolato, il pescatore, cingendo con un braccio le spalle del figlio che scottava di febbre. Risalirono con immensa fatica a Mandatoriccio.
Ripresero ad andare a mare quando furono certi che fosse finita tutta la guerra. A.S.