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IL RACCONTO: E IL PRIMO “MOTORE” PRESE IL MARE… Il memorabile varo della Sant’Antonio sul litorale di Cariati di Assunta Scorpiniti

(in Il Quotidiano del Sud del 30.09.2012 e “Sulle onde della luna. Donne di mare, storie di pesca”, Ferrari 2012)

Lo sapevano tutti che quel 15 marzo del 1950 non era un giorno come gli altri. Giorgio non ci aveva dormito la notte. L’attesa gli spalancava ancora gli occhi quando, come ogni mattina al primo chiarore, udì la voce di suo padre, Raffaele Santoro della famiglia dei Zagarogni:

“Giò, lèvati, chiama gli altri!”.

A mare non sarebbero andati, ma di certo non sarebbe stata una giornata persa. Ad aspettare il capobarca, davanti al magazzino dei mestièri, situato a ridosso della loro casa, alla Pannizzara, c’erano i suoi fratelli Peppino e Micuzzo, con Andrea e Rocco di Teresina, i Catavreddi, Cataldo dei Curia  e Cataldo Capirosso; la chiurma  al completo, contando anche Giorgio e il figlio maggiore Dionigi.

C’era una strana atmosfera e una tensione palpabile che, tuttavia, pareva dissolversi ad ogni soffio del vento leggero che odorava dei fritti già pronti nelle case.

Senza perdersi in chiacchiere, caricarono le sporte con gli sciarti di 18 bracci ciascuno e  s’incamminarono verso il cantiere di mastr’Antonio Martino, poco distante. Man mano che si avvicinavano al capannone, udirono sempre più forti i tocchi dell’ascia del varcaiolo, a scandire il loro passo e il poco tempo che mancava. Carezze, più che colpi, sui legni della Sant’Antonio di Raffaele dei Zagarogni; la zappetta ricurva aveva già lavorato a dovere per fare così grande, bella e lucente la sua nuova barca.

“Buongiorno all’ingegnere!”, disse, rivolgendosi al maestro. Non esagerava. In quel cantiere non era nata un’imbarcazione come le tante della locale flottiglia a remi. Mastr’Antonio aveva progettato e costruito a mano il primo motore della marineria di Cariati, dotato di due battelli a remo di 18 e 22 palmi. Aveva fatto tutto lui, persino predisposto l’impianto del motore, in senso letterale, di oggetto meccanico: un Arona a manovella con elica di 16 cavalli, del peso di una tonnellata, che sarebbe stato montato al momento della messa in mare. L’ingegnere, quello vero, non ci aveva trovato difetto, quando era venuto per il collaudo.

***

Il maestro era valente, per attitudine e sapienza dell’arte appresa direttamente dagli amalfitani, i quali ne avevano custodito l’essenza da tempi lontanissimi fino ai fasti della Repubblica marinara e poi in seguito. Loro stessi l’avevano portata, al cessare del pericolo d’invasioni o malattie come la malaria, quando era iniziata la discesa a mare dai paesi in collina; fu allora che dalla costiera campana erano giunti, remi in spalla, tanti marinari a insediarsi sui pescosi lidi cariatesi, incrementando la scarsa marineria e dando origine alle grandi famiglie della pesca. Vennero anche i costruttori di barche.

Natale Monti era stato il primo ad arrivare nel 1919, per costruire imbarcazioni su quel litorale; lo aveva chiamato proprio il nonno di Giorgio, Dionigi dei Zagarogni, che discendeva da uno di quei pescatori della zona d’Amalfi. La richiesta della sua opera da parte del popolo cariatese, tanto accogliente verso i forestieri, divenne forte al punto da convincerlo a fermarsi creando, nel 1923, un cantiere a cielo aperto e la sua casa, con la moglie Raffaella e il piccolo Cenzino di soli due anni, che andò a prendere a Maiori.

Mastr’Antonio aveva iniziato ragazzino a frequentare il cantiere del varcaiolo venuto dalle coste campane il quale, da parte sua, gli aveva trasmesso l’arte con la cura e l’attenzione che riservava al figlio. Da adulto, Antonio svolse poi l’attività in proprio, guadagnando tanta stima per l’ abilità e l’amore che metteva nel lavoro.

Il motore di Raffaele ne dava la misura. Maestoso, si stagliava davanti all’ingresso del capannone che non era spazioso ma pieno di legni lavorati e, agganciati alle pareti, attrezzi come trapani a mano, seghe, scalpelli, mole per l’affilatura, la serie delle asce, il garbo in varie grandezze che dava la forma ai natanti; all’esterno, alcuni scheletri accanto al legname ancora grezzo o tagliato in tavole.

Quella barca gli era nata nella testa e nelle mani a poco a poco, con grande meraviglia del giovane figlio di Raffaele che, per l’impazienza dei suoi quindici anni, stava sempre lì ad assistere alla costruzione; gli stessi abitanti del borgo andavano e venivano, per guardare. Ora era finita e il ragazzo non se ne poteva abbuttare; le girava intorno, avvicinandosi e poi allontanandosi per guardarla nell’insieme, mentre gli altri della chiurma sistemavano negli scalmi e ai ganci gli sciarti con cui l’avrebbero trascinata per circa trecento metri fino allo scaro dei Zagarogni, dove avrebbe preso il mare.

L’ultima operazione, di spalmare abbondante sego sulle falanghe per far scorrere la carena nella fase d’avanzamento, venne compiuta dai pescatori più giovani e da Dionigi, sotto lo sguardo soddisfatto del maestro e del capociurma, che in suo onore aveva voluto intitolarla a Sant’Antonio. La scelta non contraddiceva la tradizione di nominare la barca con l’onomastico paterno… il varcaiolo l’aveva concepita, cresciuta e fatta grande proprio come un padre.

Raffaele ne era convinto, quanto del fatto che le barche col motore, di lì a poco, avrebbero cambiato il mestiere del mare. È sempre buono, quando si va avanti, pensava tra sé. Per lui, in verità, c’era voluta la sfida di uno della sua chiurma, Andrea dei Critelli, che, per andare a imbarcarsi sui motori dei tarantini, lo aveva lasciato senza nemmeno avvisarlo.

C’è da dire che i pescatori di Cariati avevano confidenza con le marinerie pugliesi. Lo stesso Raffaele, con le barche, era spesso a Ginosa, a lavorare. Andavano anche sulla costa lucana. Un giorno che erano a Metaponto per la pesca con le lampare, quel giovane marinaro l’aveva incrociato navigando sull’imbarcazione motorizzata del nuovo padrone e l’aveva chiamato:

Rafé, l’hai visto? Prima tu stavi seduto e io remavo, ora sto seduto io e remi tu!”.

Il capociurma, sentendosi punto sul vivo, aveva deciso in un istante:

“Vado a Cariati e faccio il motore!”.

Erano trascorsi quasi sei mesi dall’incontro con il figlio dei Critelli. C’erano volute duecentomila lire per la barca e i battelli e un milione tondo tondo per il macchinario; tolte trecentomila di anticipo, tutto il resto era da pagare a cinquantamila al mese di cambiali. E ora era venuto il momento del battesimo nel mare.

***

Il varo era  fissato per le nove di mattina, ma già da alcune ore c’era movimento di persone lungo il tratto litorale. I marinari erano tutti lì, pronti a dare la forza delle braccia. Nemmeno loro sarebbero andati a mare, in quel giorno di festa che non era nemmeno domenica.

Tra gli altri, c’era Catello di Deodato, che sapeva il fatto di Metaponto e ne ragionava con Saverio dei Vajani e Vincenzo degli Occhiati:

“Solo i Zagarogni, potevano fare il motore”.

“Sei barche a remi e due lampare… li hanno solo loro”.

“Diciamo il fatto com’è: chi li ha mai avuti a Cariati?”.

“Sono la famiglia più grande”.

“Erano i primi già in mano al padre, zu Dionigi”.

“Non li hai visti a Metaponto e a Ginosa… ci vanno con le chiurme di diciassette, diciotto persone”.

“Già di casa sono una murra …”.

“Contiamo i fratelli, i cognati e tutti i nipoti…”

“Le cambiali se le possono cacciare, a quanti sono”.

“Raffaele sa quello che fa…”.

“Vedi che pure gli altri se lo faranno, adesso, il motore”.

“E non lo sai… i Tranquillo già hanno parlato con mastro Cenzino Monti”.

“Pure loro andranno bene”.

“Più pesci e meno fatica, ma tutti gli altri… avogghia a vogare il remo!”.

“C’è Giorgio… Ohi Giò, lo variamo o no questo motore?”.

Il figlio di Raffaele, che non stava più nella pelle, passava in quel momento, di corsa. Non sapeva nemmeno lui quante volte era andato dal cantiere, situato al centro del borgo, al loro scaro della Pannizzara. Rispose:

“Mò, mò… un altro poco e siamo pronti!”.

Doveva fare l’ultima avvertenza alle donne, in attesa intorno alle tavole dov’erano allineate le cistedde piene di crùstuli e fusiddi coperti da grandi tovaglie tessute al telaio. Raccomandò loro di sorvegliare che lo spazio rimanesse libero, per le manovre della messa in mare.

Il percorso inverso lo fece camminando all’onda, per non avere l’intralcio di tutta quella gente assiepata ai lati dell’arenile che avrebbe fatto da pista per lo scorrimento della barca. Meno male che il mare era calmo.

Lo raggiunse Peppino, uno degli Occhiati che aveva pressappoco la sua età; gli disse:

“Giò, hai visto a Cariati sopra? Tutti che stanno aspettando!”

Il ragazzo sollevò lo sguardo verso il  paese alto, ben visibile dal punto in cui si trovava. Quanta gente, sulla Croce! Sentì il suo corpo attraversato da mille brividi che lo pungevano come chiodi e la testa che gli volava… Vide decine, forse centinaia di persone accalcate alle ringhiere di ferro, sotto il  monumento dell’angelo col soldato morente, eretto sul colle del paese alla gloria dei caduti in battaglia.

“Hanno detto che si sono messi pure sugli spuntoni, per guardare!”, aggiunse l’amico, elettrizzato dalla novità, come gli spettatori affacciati sui poderosi bastioni dell’Annunziata e della Valle, che, con quello degli Spinelli, là dove sorgeva il palazzo del principe, custodivano la parte antica del paese protesa sul mare; gli altri cinque torrioni della cinta muraria, delimitavano, invece, la parte retrostante.

Giorgio sapeva che quelle persone erano tutte lì per il varo, per la loro barca, per il primo motore della marineria di Cariati! Riprese la corsa senza rispondere, perché nemmeno gli usciva il fiato per poter parlare. Arrivando al cantiere, disse tra sé:

“Ci siamo”.

***

Alcuni della chiurma, addetti alle falanghe, già spalavano la sabbia collocandovi le grosse traverse in posizione inclinata, a breve distanza l’una dall’altra; un altro gruppo, man mano che la barca sarebbe scivolata di prua, le avrebbe sollevate dalla parte posteriore riposizionandole sul davanti.

Sulla spiaggia la concitazione cessò quando i marinari, divisi in due gruppi ai lati di poppa, diedero alla Sant’Antonio la prima spinta, raccolta da tutti quelli davanti che, tirando gli sciarti,  la fecero scivolare di alcuni metri sulle grosse traverse spalmate di grasso animale. Nessuno parlò; si sentì  solo un “Oooh”, come un boato.

La tensione era alta, perché i movimenti dovevano essere  precisi e sincronizzati. Non sia mai un piccolo errore… potevano esserci danni allo scafo. Gli astanti assistevano a bocca aperta alle manovre, guidate dal maestro d’ascia con accanto il capo ciurma che sarebbe stato padrone della barca solo dopo  la messa in mare.

Si procedeva di prua, lentamente, con un sospiro di sollievo ad ogni metro guadagnato. Nel silenzio quasi totale, risuonò la voce di Giovanni della Meracola, che nel Golfo di Taranto aveva assistito a tanti vari:

Cumpà Rafé, lo sai che facciamo? Prendiamo i rulli e li mettiamo alle falanghe… ”.

Il capociurma sapeva il fatto suo. Rispose:

“Ce ne andiamo piano piano, tirando con gli sciarti”.

Non era il caso di inserire quegli aggeggi di ferro nel solco delle traverse per guadagnare velocità. La messa in mare voleva il suo tempo. L’importante era arrivarci senza danno.

Nello scaro aspettavano il parroco don Alfonso Russo con il padrino, Cataldo della Mazzettara, promesso sposo alla figlia primogenita di Raffaele. All’arrivo della barca, l’odore dei fritti ristorò i marinari impegnati nella fatica del trascinamento, ma ora occorreva un ultimo sforzo per metterla in mare girata di poppa.

Anche quest’operazione andò a buon fine. Sopraggiunse un veicolo, recante la pesante macchina motrice che i pescatori issarono a bordo con la stessa cura che nella giornata festiva del 10 maggio riservavano alla statua di San Cataldo, quando la sollevavano in barca per la processione a mare. La fase ultima, di assemblaggio, toccò a mastr’Antonio. Ne era più che capace.

Dal momento in cui questi entrò nella cabina, fino a quando ne uscì, si avvertì soltanto un brusìo, ma nessun segno d’impazienza da parte delle centinaia di persone in attesa sulla spiaggia della Pannizzara e, più in alto, sulle torri del paese. Le mani abili che sistemavano cavi, valvole, prese, stringevano bulloni, verificavano la marmitta, posizionavano la batteria, attiravano come una calamita gli occhi di Giorgio, salito a bordo col maestro, il padre e tutta la chiurma. Il ragazzo contava i minuti, i secondi, pregustando la felicità che avrebbe provato nel vedere la barca diventare un fulmine tra le onde senza la fatica immane di vogare…

“State accorti a quando tirate la manovella, a non farla andare indietro!”, avvertì mastr’Antonio, prima di scendere. Raffaele lo rassicurò:

“Lo sai che ci stiamo attenti… altrimenti ci danniamo l’anima e non parte!”.

Con questo proposito si consumò il rito del montaggio. Ora da compiere c’era quello della benedizione, che venne impartita da don Alfonso. Le donne, intanto, si affrettarono a scoprire le ceste e a riempire i bicchierini di marsala. Raffaele, rimasto a bordo con i suoi, disse solo:

“Variamo!”.

Fu di nuovo silenzio, tra i marinari che avevano aiutato e si erano seduti, stanchi, sulla sabbia, dopo aver raccolto tutte le falanghe ammucchiandole accanto all’argano, al quale avevano avvolto gli sciarti. Si fermò la corsa euforica, tutt’intorno, di bambini di ogni età. I vecchi pescatori, che avevano osservato con un certo distacco, sospesero i  commenti su quell’aggeggio che non li convinceva… da quando il mondo è mondo, i marinari hanno sempre vogato il remo, pensavano. L’attesa sembrava condivisa anche dalle piccole onde che schiumavano discrete sotto lo scafo.

Mastr’Antonio era all’onda, a dare l’ultimo sguardo paterno all’imbarcazione adorna di fiocchi colorati e bandierine. Pareva una sposa pronta per l’altare. Non disse nulla, ma, nella sua mente, ripercorse il cerimoniale al quale assisteva da ragazzo, celebrato ad ogni varo dal suo maestro amalfitano. Lo vedeva portarsi a prua, con l’inseparabile ascia e parlare alla barca:

“Per tutta la fatica mi hai fatto fare a costruirti… per tutte le difficoltà che ho dovuto affrontare, io ti maledico!”.

Poi il tono cambiava:

“Ti benedico per quello che sarai, per il bene che porterai alla famiglia”.

Infine l’affidava al mare:

“Io l’ho fatta, tu non distruggerla”.

***

Giorgio era rientrato in cabina col padre. Conobbe l’eternità di quegli ultimi attimi, ma anche il panico del fallimento, quando andò a vuoto il primo tentativo di Raffaele, di far partire il motore azionando la leva d’accensione. Lo scoppiettare che iniziò alla manovra successiva, facendosi ritmo martellante, gli sembrò, invece, musica celestiale…

L’udirono fuori e, in quel momento, iniziò un tripudio d’applausi, grida festose, richiami alla chiurma, sempre più incalzanti. Sul motore ci volevano salire tutti, per il giro inaugurale. I più fortunati furono quelli che riuscirono ad arrampicarsi per primi. Giorgio volle a bordo tutti i suoi compagni, orgoglioso di portarli con quel padre che era troppo sperto per il mare… che la notte, invece di dormire, andava a controllare le barche con l’occhio… che a pesca comandava la cala e sapeva quanti pesci avevano preso già prima di tirare. Un padre misterioso a fare reti tanto precise che lasciavano tutti a bocca aperta. E ora stava dando alla famiglia l’ammirazione di tutto il paese. I commenti dei ragazzi erano esultanti:

“Oh, Giò, hai visto come gli stringono la mano, tutti quanti!”

“E come tira questa barca!”

“E’ una locomotiva!”

“Ma quanti pesci si prendono?”

Avogghia di pesci! Cento, centocinquanta cassette… no, cinquecento, pure mille!”

“Eh, sì. Se non li trovi a un’acqua, in un minuto arrivi all’altra…”

“Voglio vedere che faranno, tutti i marinari che vanno vogando!”

Piena all’inverosimile la barca, che in verità pareva piuttosto strana, senza i remi negli scalmi e tanto potente da trainarne altre due, mosse, lasciando una lunga scia che a molti, non solo al suo costruttore, dava l’idea d’un velo nuziale.

A terra le donne degli Zagarogni, che fino a quel momento avevano balbettato voti ai protettori del paese e alla Madonna di Pompei, ora distribuivano fritti a piene mani, benedicendo la santa giornata.

La Sant’Antonio prese il largo, con Raffaele al timone e suo figlio al settimo cielo, che, a un certo punto, non resse l’emozione. Non ci capiva più nulla.  Per riprendersi ci volle un urlo liberatorio, a pieni polmoni. Dal mare vide tantissima gente sui torrioni che salutava con fazzoletti bianchi. Lo invase una gioia tremenda, totale, che gli rimase dentro per sempre, incancellabile.

Assunta Scorpiniti, 2012

 

 

 

 

 

 

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