(da Il Quotidiano della Calabria di domenica 29 aprile 2012, pp. 18 e 19)
Cronaca dei nostri giorni
Un giro d’orizzonte nella zona riservata ai rifiuti speciali, sorta sul litorale ionico,
tra la provincia di Crotone e quella cosentina.
di Assunta Scorpiniti
È il 25 febbraio 1938, il tempo di “Vittorio Emanuele Terzo, per grazia di Dio e per volontà della Nazione, Re d’Italia e Imperatore di Etiopia”. Davanti a Domenico Parisi, notaio in Cariati, si costituiscono i fratelli Salvatore, Luigi, Giuseppe, Pasquale e Francesco Aurea, possidenti di origine longobucchese, per procedere alla divisione amichevole di un fondo rustico di circa 300 ettari, denominato Case Pipino, di natura “pascolativo, seminativo e cespuglioso”, ereditato dai genitori e sito in agro di Scala Coeli, paese presilano della provincia di Cosenza.
La scrittura notarile pervenuta, descrive una vasta area, caratterizzata da dolci rilievi incoronati da “querciole”, sorgenti d’acqua, giardini di ulivi; nel contempo, regola i rapporti di proprietà, garantendo transiti agevoli degli animali verso i pascoli, incanalamento di acque per gli abbeveratoi comuni, confini di “siepe morta”, in base alla prescrizione di non creare altre barriere oltre quelle fatte di cortecce, rami di potature o spezzati dalle intemperie, invalicabili ad istrici, cinghiali o altri animali dannosi alle colture, eppure vive, perché rifugio di utili insetti e nidi di uccelli.
Il tempo ha ingiallito le pagine e cancellato tratti d’inchiostro, ma non una mentalità, una consuetudine o, forse, solo il buon senso di rispettare, curare e tutelare un paesaggio ritenuto prezioso, per quanto trasformato dalla pratica agricola, l’attività che per millenni ha permesso alle nostre popolazioni calabresi di esistere e progredire.
Ne sono portatori Francesco Chiarello, 57 anni, agricoltore; Gennaro Iemboli, 80 anni, agricoltore e proprietario di alcune quote dei fratelli longobucchesi e il giovane ingegnere Gianni De Renzo. Il legame familiare (sono genero, suocero e il nipote di questi) è anche il vincolo dell’appartenenza al luogo, alla sua storia e a un presente divenuto, per loro stessa ammissione, problematico e doloroso.
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La contrada Case Pipino ricade in un’ampia area pianeggiante, delimitata da colline, situata nei pressi del tracciato della S.S. 106 bis, sul litorale ionico, attraversata dal fiume Nicà e dai numerosi affluenti; dopo il Marchesato e la Piana di Sibari, è uno dei territori più importanti di questo lembo di Calabria, poiché vi pulsa il cuore agricolo ed economico di quattro paesi contigui: i centri cosentini di Scala Coeli e Terravecchia, e poi Crucoli ed Umbriatico, della confinante provincia di Crotone.
Un migliaio, circa, le aziende, fra zootecniche, agricole o miste, presenti su poderi assegnati dall’Opera per la Valorizzazione della Sila, negli anni Cinquanta del Novecento o acquistate direttamente dalla proprietà terriera da parte di privati cittadini a partire dal secondo dopoguerra, in molti casi con le rimesse del passaggio in America o, dalla fine degli anni Settanta del Novecento, con i frutti dell’emigrazione in Germania. Il rientro in patria dei lavoratori, determinato anche da una crisi economica che provocò, tra l’altro, il blocco del reclutamento di manodopera italiana da parte dello stato tedesco, ha, infatti coinciso con l’impianto di molte aziende agricole e nuove colture create, appunto, con i piccoli capitali realizzati, oltre che con l’ampliamento e la modernizzazione di quelle esistenti.
Malgrado ciò, spiega Chiarello, si è riusciti a mantenere quell’armonia tra coltivazioni e natura, che ha caratterizzato il luogo fin da tempi antichissimi; locus amoenus, per dirla con i poeti antichi al pari di Virgilio che cantò le “fonti muscose ed erba più molle del sonno,/e ombra del verde corbezzolo che rada vi copre” e quelle gemme che “già sul flessibile tralcio s’inturgidiscono… ”. Non è troppo, il paragone con il sito del territorio ionico. Così viene in mente a pensarlo lungo i secoli; quasi immutato, nella concezione e nella modalità di utilizzo. Questo, però, fino all’arrivo a Case Pipino, nell’ampia vallata di fronte all’antico fabbricato degli Aurea, del cosiddetto progresso; la forma è quella, inquietante, di una discarica, un elemento del nostro tempo che ha mutato il senso del luogo, oltre che il suo destino e il volto, non più ridente.
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Anche la discarica, qualificata come impianto “per rifiuti speciali non pericolosi”, ha, ormai, una storia, peraltro attestata in rete da una ricca documentazione. L’avvio è nel 2008, quando un’erede degli Aurea vende la quota di proprietà di contrada Case Pipino all’impresa Bieco srl di Rossano, che ottiene le autorizzazioni necessarie alla realizzazione dell’impianto; nell’area prossima di località Pieditorto, doveva accogliere, almeno all’inizio, anche una megadiscarica pubblica per RSU.
Nulla si sa per mesi, ma poi, nel 2009, risuona l’allarme di alcuni proprietari terrieri, allertati da lettere di esproprio, insieme alla notizia che una società privata, Bieco, appunto, aveva presentato e chiesto l’autorizzazione per una discarica privata per rifiuti speciali non pericolosi agli organi competenti, compreso il comune di Scala Coeli, che prima concorda e poi, però, esprime diniego.
Inizia così, tra forti tensioni, la mobilitazione a difesa del territorio, con la nascita di un comitato antidiscarica, di comitati spontanei di cittadini e del comitato dei sindaci dei comuni coinvolti; non mancano assemblee, pubblici dibattiti, convegni come quello che ha portato, nel piccolo comune di Scala Coeli, un luminare del calibro di Paul Connett, professore emerito di chimica presso la St. Lawrence University di New York, a presentare la strategia Rifiuti Zero, di cui, a livello mondiale, è promotore. Il pericolo della costruzione della megadiscarica e termovalorizzatore è, quindi, scongiurato, ma non la realizzazione della discarica privata, i cui lavori autorizzati, iniziano nel 2010, mentre si susseguono le iniziative di protesta, anche da parte di gruppi civici, come l’associazione “Le lampare” e il movimento “Terra e popolo”.
Non mancano appelli alla Regione, denunce alla magistratura per presunte irregolarità esecutive (si ha notizia di un ricorso con 200 firme), segnalazioni di non conformità da parte di Bieco alle prescrizioni delle leggi e delle autorizzazioni, di abusivismi lungo le strade d’accesso, sospensioni e poi ripresa dei lavori, coinvolgimento di Provincia, Afor, Arpacal e tanto altro ancora; la più singolare accusa: non aver considerato che il sito è territorio protetto in quanto zona coperta dal marchio DOP “Bruzio” (certificato dal presidente del Consorzio di tutela) e “Colline Joniche Presilane” , oltre che luogo di coltivazioni biologiche.
Dal canto suo, Bieco, convinta delle sue ragioni, si sottopone ai controlli e prosegue nel suo scopo, rigettando tutte le “accuse manifestamente infondate che trovano un’eco mediatica dai contorni diffamatori”. A gennaio del 2012, la comunicazione dell’apertura e della messa in funzione dell’opera; l’ultima sospensione – precauzionale – da parte della Regione dopo le ennesime denunce, è storia di oggi.
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Un giro d’orizzonte nei luoghi della discordia è quasi d’obbligo, anche perché ignoto ai più; la giornata è uggiosa, quasi complice di uno stato d’animo poco allegro, da parte di Chiarello, Iemboli e l’ingegnere De Renzo, che conducono la visita e spiegano il territorio.
Il percorso inizia dal Pantano e si sviluppa lungo l’area del torrente Patia, che serpeggia nella grande vallata del fiume Nicà di cui è uno dei tanti affluenti. Il passaggio, in fuoristrada, è raccontato da Chiarello che davvero mostra di conoscerne ogni tratto, ogni pietra, ogni specie arborea; indica, tra l’altro, nei pressi dell’argine sinistro del torrente, coltivato a vigneto, il sito sottoposto nel 1995 a ricognizioni archeologiche, che ha restituito “resti affioranti di strutture murarie a secco”, descritte in una recente pubblicazione curata da Armando Taliano Grasso dell’Università della Calabria.
La pioggia insiste leggera, ma non toglie bellezza alla primavera del paesaggio, che, nell’ampio spazio, alterna viti, ulivi e agrumeti, ordinati e rigogliosi, a intrichi di rovi, boschetti di olmo campestre, verdi tamerici e profumati biancospini; tanti, i campi con ortaggi e piante da frutto, delimitati da muraglie di sambuco e oleandri non ancora fioriti. A prevalere, tuttavia, sono le ginestre spinose che, nella macchia mediterranea, danno colore e luce fin nei punti più alti, completamente rimboschiti per il mantenimento del suolo.
L’immagine è quella di un luogo silenzioso ma vivo, per la presenza di costruzioni rurali, coltivazioni e, nelle aree libere, di moltissimi animali al pascolo, fra cui il pregiato bovino podolico, tipico del luogo. “Se questo cuore smetterà di battere i nostri paesi moriranno”, afferma, con palese emozione, Francesco Chiarello considerando anche le nuove leve del lavoro agricolo, come i suoi giovani figli i quali, con grande entusiasmo e consapevolezza, lo hanno scelto come fondamentale, per la realizzazione di un progetto di vita, da qualche tempo a questa parte, non più luminoso come prima.
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È decisamente scioccante, subito dopo, l’impatto visivo con la gigantesca discarica che, nonostante la completezza strutturale, sembra quasi posticcia, sul terreno a fronte della casa degli Aurea, oggi in rovina. Gennaro Iemboli, che in quelle terre è nato, ha lavorato una vita ed attualmente ha la sua azienda di oltre 150 ettari, fa fatica a guardarla, ma non ad esprimere il suo dissenso con energia: “Quando i soldi erano soldi, i due fratelli longobucchesi (padre e zio dei firmatari dell’atto notarile del 1938) hanno avuto il coraggio di acquistare quasi mille tomolate di terreno e ci hanno vissuto, ci hanno fatto belle palazzine, ci hanno fatto tanti lavori e hanno dato da mangiare a tante famiglie; ho i figli e i nipoti che hanno grande simpatia per questo luogo e sono intenzionati a continuare la tradizione di famiglia… perché non sono stato interpellato per la vendita, visto che sono qui, proprio sul confine? Eravamo fattori, in questa terra, ho fatto la Germania per comprarla, ora mi piange il cuore e la notte non dormo…”. Il rammarico è evidente, quanto lucido il giudizio: “Secondo me la costruzione della discarica è un grande errore; si è creato un nido per rifiuti che vengono chissà da dove, che rovina la vita in questo luogo e la nostra vita”. Il risultato, in effetti, è visibile. Iemboli sospira: “Potevamo avere un’area bellissima, libera e limpida…”.
L’ingegnere De Renzo, peraltro uno dei principali attivisti del comitato antidiscarica, chiarisce le ragioni del no all’impianto, descrivendo alcune modalità di una protesta che è quasi diventata una ragione di vita: “Il motivo profondo è da ricercare nella natura dell’impianto, che è di discarica per rifiuti speciali in una zona dove non esistono distretti industriali; in pratica non produciamo i rifiuti che dovrebbero essere abbancati in questa discarica. Se nemmeno risolve i nostri problemi di smaltimento, perché farla in un territorio a forte vocazione agricola e turistica…”. L’ingegnere elenca le contestazioni addotte ai vari iter procedurali e organizzativi, mettendo in evidenza le istanze raccolte dalla Regione Calabria e l’attesa dei rilievi dell’Arpacal. Nessun dubbio circa le conseguenze della presenza, in loco, di un simile impianto: “A breve termine possono essere minime, nel tempo, però, Scala Coeli e dintorni saranno conosciute e circoscritte come territorio di discarica, a discapito delle coltivazioni biologiche, degli allevamenti, della natura rigogliosa, che, se incanalata nei circuiti turistici, potrebbe aprirci al mondo, facendo davvero la ricchezza di questi luoghi”.
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Prosegue il giro d’orizzonte, dopo la sosta al sito. L’ingegnere aveva ragione quando parlava di grande vocazione turistica del territorio. Oltre alla pratica agricola, ci sono, a poche centinaia di metri dalla discarica, in linea d’aria, paesaggi incredibili. La fiumara, con suggestive cascate e il suo larghissimo greto, unisce, con un respiro infinito, l’azzurro ionico con le verdi montagne della Sila. Ci sono i paesi, tutt’intorno, sui cocuzzoli, che sembrano presepi. Sparsi, antichi frantoi e dimore rurali, come lo splendido Casino dei Pismataro, in località Macchie, poi quello dei Vizza e dei Marino, oggi abbandonati, ma, comunque, espressioni di autentica corrispondenza tra uomo e ambiente; potrebbero contribuire al progresso, se nascessero a nuova vita. Ci sono i luoghi dei passaggi umani come la “Virdara”, ricca di acqua cristallina utilizzata per secoli dalle lavandaie che scendevano dalle colline.
C’è, infine, la rappresentazione visibile, presso un corso d’acqua detto Pricò, di una storia triste; quella di Anna Capalbo, travolta, a soli sedici anni, “dai gorghi dell’impetuoso torrente il 23 ottobre del 1957”; fu quando, “nel tentativo di salvare suo padre, immolò la sua giovane vita”. Era una ragazza di Calabria, che faceva ritorno, a piedi, a Scala Coeli con i suoi, dopo una giornata di lavoro nei campi. Era bella, con le trecce che le incorniciavano il volto sorridente, visibile sulla lapide apposta dalla Cassa del Mezzogiorno che, vi è scritto, “a ricordo del generoso olocausto costruì il ponte e questa lapide pose”. La costruzione del ponte sulla fiumara, ha, infatti, poi protetto tante altre vite di contadini, che, ogni giorno, affrontavano passaggi impervi per raggiungere i loro poderi.
E’ forse, proprio in questo ponte e nella storia di Anna, che possiamo individuare i simboli di una terra bella e generosa, ma carica di sofferenza, come mostra la storia che, solo in alcuni aspetti, è qui descritta; la storia della discarica per rifiuti speciali che, a torto o a ragione delle parti in causa, è stata comunque costruita nel territorio di Scala Coeli, nella rigogliosa e misconosciuta contrada Case Pipino.
ASSUNTA SCORPINITI – 2012