di Assunta Scorpiniti
(Questo racconto della Fiera di Maggio tocca le corde dei miei sentimenti e di intense emozioni. L’ho pubblicato nel giugno del 2006 sul Quotidiano della Calabria e su Il Crotonese del 31.05.2011, con la cara presenza e i ricordi di mio padre, che restituiscono un affresco vivido della civiltà contadina. Purtroppo poco o niente oggi rimane dell’appuntamento fieristico di cui ho potuto narrare, quando – era il 2006 – memoria e consuetudini ancora convivevano in un antico luogo di scambio vicino al mare).
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La fiera di Maggio, con i suoi rituali, è un evento affascinante, atteso dagli abitanti di Cariati e del circondario. Si tiene in due punti del paese: in via Matteotti, tra le case allineate del borgo marinaro, in forma di grande mercato; la vendita degli animali avviene, invece, al confine nord, lungo la via marittima che porta al santuario di San Cataldo.
Questa parte della fiera, che suscita sempre grande curiosità, è un’occasione di buoni affari per allevatori e commercianti; per la generazione dei padri contadini è un patrimonio di rapporti e consuetudini ancora da spendere, nonostante siano venuti meno il clamore e l’estensione di un passato non troppo lontano.
Giuseppe Scorpiniti è uno di questi padri; è mio padre, al quale ho chiesto di condurmi nell’antica dimensione della fiera di maggio. Lo ha fatto affidandomi le sue memorie di uomo di questa terra, anche in senso letterale, per averla coltivata e curata con amore per una vita intera, popolando un lembo della bella campagna costiera con i suoi allevamenti e i suoi cavalli, di cui è stato un appassionato, e per questo, fin da giovanissimo, assiduo frequentatore delle fiere che si svolgevano nell’entroterra e delle vicine zone di mare; con i fratelli, vi conduceva gli animali attraverso sentieri e scorciatoie, o lungo le spiagge, cavalcando a turno i loro cavalli e dormendo all’aperto, nel passaggio che richiedeva almeno due giornate…
Credo sia possibile, per una volta, derogare alla neutralità, raccontando un pezzo di Calabria proprio con la testimonianza di questo mio padre settantacinquenne che, fra scene di movimento e sorprendenti immagini, restituisce l’evento fieristico così come esso si svolgeva da 50-60 anni fa fino all’inizio degli anni Settanta.
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COSÌ AVVENIVA IERI…
“Chissà da quanti anni c’è questa fiera… una volta era una delle più importanti della Calabria”, esordisce mio padre, sottolineando il valore di una tradizione antica, che si rinnovava per due giorni e due notti, il 19 e 20 maggio, e alla quale conduceva gli armenti ogni coltivatore, mandriano, fattore del luogo, dei paesi del crotonese o della fascia presilana.
I compratori arrivavano, invece, dai centri della Sibaritide, da Cosenza, dalla provincia di Catanzaro, ma anche dalla Puglia, dal napoletano e dalla Sicilia, attirati, già allora, dalla genuinità delle carni e dalla convenienza, dal momento che a vendere erano direttamente i produttori, i cui bisogni erano tanti: “Se mancavano i forestieri, che pagavano in contanti, era un guaio perché soldi ne camminavano pochi, e i compaesani volevano risparmiare; appena, però, se ne vedeva qualcuno arrivare, ci avvuciavàmo l’uno con l’altro e i prezzi aumentavano”.
A volte l’occasione era offerta dall’acquisto, da parte del commerciante, degli ultimi capi di bestiame necessari a ‘fare il vagone’; il trasporto sulle lunghe distanze avveniva, infatti, mediante i treni merci che transitavano dallo scalo ferroviario di Cariati.
Era un ulteriore fattore del movimento che si registrava in paese, nella circostanza della fiera e, nel contempo, un’altra immagine restituita dalla memoria paterna, con figure “storiche” di acquirenti: da ‘u cutrìsu’, al quale interessavano solo i cavalli, al siciliano il quale, con il suo “vò ca mu càttu ù viteddu?” incalzava i vaccai intanto che marchiava il bovino col suo timbro, per evitare tentennamenti; e poi Micantòni e Gerardo, una ‘parigghia’ proveniente da Gioia del Colle, che commerciavano in mucche da latte.
A completare il quadro delle presenze, i ‘tramenzèri’, ovvero gli intermediari di mestiere, oltre a strani personaggi provenienti da chissà dove, che si aggiravano nelle fiere dell’epoca.
Non mancavano bancarelle di nucìdde e mostaccioli, o stracolme di attrezzi per il lavoro dei campi, scarponi chiodati, finimenti per cavalli e animali da tiro; di ogni sorta di campana tra cui le ‘strippàre’ della transumanza. Tutto avveniva “tra il carafùno di Molinello il torrente Muranera”, i corsi d’acqua delimitanti la parte bassa del paese, con le sue case adagiate sulla riva del mare. Si cercava di arrivare per tempo, in modo da trovare posto sull’arenile zeppo di animali: “Ma non per venderli tutti; se si dovevano togliere i vitelli, si votàvano nella fiera con le madri che, nella tappa notturna del rientro, sfuggivano ai proprietari per andare in cerca dei figli… ”
Piccole mandrie di bovini, dunque, ma anche greggi di pecore e capre, pollame, maialini di due mesi, da ammazzare a febbraio; e poi coppie di buoi che, nella fase concitata delle trattative, dovevano essere sottoposti al rodaggio del traino, col carro affondato nella sabbia o immerso nell’acqua per saggiare il vigore delle bestie acquistate.
E, ancora, cavalli da lavoro, puledri, muli e asini a volontà, venduti e comprati anche dagli zingari, i quali “arrivavano quattro o cinque giorni prima”, recando i figli in spalla e le mogli, con in braccio i piccoli, in groppa a quadrupedi senza basto.
Dalla contrada rurale di Santa Maria, giungeva mio padre ragazzino che aiutava il suo, come facevano tanti coetanei delle campagne. “Portavamo, di solito, vacche nostrane e tori di sette, otto quintali”. Una volta individuato lo spazio da occupare, a fare da barriera erano le barche tirate a secco (“per paura dei tori i pescatori non si avvicinavano”), e il compito di sorvegliare il bestiame toccava proprio a quei ragazzi. “Stavamo in solitudine, quasi prigionieri per ore ed ore perché era necessario controllare che non scappassero”; quando capitava, quasi sempre nelle insolite notti di un mare abitato da muggiti, belati, dal grugnire assillante di qualche maiale arrabbiato, bisognava inseguirli per chilometri, prima di riacciuffarli.
Si faceva di tutto, in pratica, per evitare di aumentare ulteriormente il caos: “Cercavamo di spingere gli animali in acqua e trattenerli con le zampe a mollo, perché muschìàvano”.
C’era, infatti, il rischio continuo che potessero imbizzarrirsi anche solo per il fastidio degli insetti, e, pertanto, bisognava avere il modo di difendersi. Per questo, oltre che per guidarli, i ‘feraiòli’, grandi e piccoli, recavano sempre un bastone in mano.
Quelle bestie ribelli, erano la delizia dei figli dei pescatori i quali, brandendo ‘staffìli’ da loro stessi costruiti, si divertivano ad aiutare i campagnoli nella fatica di domarli; i marinari dell’epoca erano molto poveri, e per i loro bambini, sempre scalzi, il paese dei balocchi era proprio la fiera di maggio.
Intanto i grandi contrattavano non solo la vendita con i compratori forestieri, ma anche lo scambio di animali con i “colleghi” del territorio: rinnovare, ingrandire il proprio capitale di bestiame era il principale scopo della partecipazione all’evento fieristico; nonno Leonardo, infatti, diceva: “I buoi vecchi li diamo per due giovani pagando la differenza; con i vitelli venduti compriamo un cavallo e se qualcosa soverchia lo diamo alle donne, insieme ai soldi del maiale”.
Questo discorso, però, veniva fatto il secondo giorno, a conclusione degli affari e dopo la consegna dei animali venduti; solo allora le mogli si recavano alla fiera che si teneva in paese, per comprare il corredo delle figlie, rinnovare gli utensili e il guardaroba, ma in misura, per ciascuno, di un vestito e un paio di scarpe all’anno.
Le cariatesi non si occupavano degli animali, a differenza delle robuste donne dei mandriani e dei pastori di montagna, che, armate pure loro armate di bastone, scendevano per aiutare i mariti a gestire il bestiame, intervenendo nelle trattative di compravendita, spesso caratterizzate da discussioni accese, finti ripensamenti e sottili intese per abbattere o far lievitare i prezzi.
In genere, tuttavia, la stretta di mano che contrassegnava il compimento dell’affare, sanciva un patto di lealtà, senza bisogno di sottoscrivere documenti, con la garanzia del “soddisfatti o rimborsati” nel margine dei tre giorni lavorativi. E l’uso ricorrente dell’appellativo ‘compare’, era la prova del fatto che si era avuto a che fare insieme, in quella o in altre piazze calabresi.
La fiera, dunque, anche come luogo di amicizie e relazioni sociali, e di spettacolo per tutti. Per divertimento era, infatti, frequentata anche dai signorotti locali, che vi giungevano “col carrozzino e i loro cavalli eleganti”, ammirati dai ragazzi, ai quali, invece, toccava faticare duro, dietro agli animali.
Alla fine, però, per loro c’era una ricompensa “per i mostaccioli”, dicevano gli adulti, porgendo un gruzzoletto di denaro; che significava: spendili come ti pare. Festa, quindi, finalmente, anche per mio padre: “Compravo un organetto, un coltello a serramanico, conservavo con cura il resto e la fiera per me era fatta!”
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E LA FIERA COM’È OGGI
Lo scorso 20 maggio (2006) ho, dunque, accompagnato mio padre nella fiera, che dura solo una mattinata. Un rapido giro per il grande mercato di via Matteotti, ora esteso anche alle strade adiacenti, prima di raggiungere la fiera degli animali, ormai circoscritta a un breve tratto litoraneo in prossimità della chiesa-santuario.
Non più la spiaggia pullulante di bestiame, né ragazzi intorno a greggi e mandrie, ma piccoli e grandi camion attrezzati al trasporto di bovini, cavalli, maiali o pollame; con gli animali che vi sono attaccati per la cavezza, fanno quasi da stand.
Tuttavia, colgo echi dell’antica fiera di Calabria e della faticosa, ma serena, giovinezza di mio padre già dall’appellativo consueto, che con amicizia, gli è rivolto da anziani contadini e compratori forestieri, come quel ‘cumpà Ntòni’, che gli vendeva i migliori cavalli, ed è ancora lì.
Un continuo salutarsi, tra i diretti interessati alla fiera, riconoscibili dal medesimo atteggiamento, dalla stessa postura, dal fare diplomatico e dall’immancabile bastone tra le mani. Riesco a captare qualche dialogo di vendita, e mi pare condotto con l’antica modalità ma senza l’ansia di vendere e comprare.
Ho visto un contadino costruire un piccolo recinto per esporre parte dei suoi maialini; gli altri sono nel camion, placidamente addormentati. Bellissime, le bancarelle con selle e finimenti, come quello con le campane del colore del rame e i ‘vurvìni’ per gli orti, accanto alle mercanzie etniche degli ambulanti africani.
Assunta Scorpiniti, 2006